“La Simeoni s’impone: in primo luogo perché sa cantare e i suoi mezzi son saldi, duttili, freschi e pieni, ben calibrati in rapporto alle esigenze della scrittura belliniana e i pesi vocali dei colleghi in scena. Ed è sempre presente al personaggio, vivida e partecipe, davvero coinvolgente nel trapassare dai fervidi slanci d’amore turbati da rimorsi e incertezze alla presa di coscienza del tradimento di Pollione e alla scelta d’amicizia e solidarietà femminile. Un talento autentico, indubbiamente.”
di Roberta Pedrotti
TORINO – Valeva la pena di tornare a Torino per riascoltare Norma con il cast alternativo, che nulla ha da invidiare a quello, apparentemente più titolato, della prima, anzi. Due diverse protagoniste hanno impresso allo spettacolo un passo nuovo, riequilibrandone le sorti grazie a una coppia femminile protagonista in grado di rispondere alle sollecitazioni del podio e di realizzarle in suggestiva comunione d’intenti.
Non gridiamo al miracolo, giacché la perfezione è un ideale cui tendere più che un obiettivo concreto da raggiungere, e in quest’opera più che mai. Norma dovrebbe possedere incisività vocale, fraseggio scolpito e mobile, ricchissimo di colori, legato impeccabile, declamati energico, padronanza assoluta del canto espressivo di coloratura, in particolare dell’agilità di forza. È ovvio che all’interprete non si richieda tanto di possedere tutte queste virtù in sommo grado, ma di saper amministrare con intelligenza le proprie qualità, come fa Maria Billeri, che non sarà una virtuosa abbagliante, ma è un’ottima cantante che impersona una Norma di tutto rispetto, forte di una vocalità ricca, vigorosa, estremamente duttile, tale da permetterle di rispondere a tutte le sollecitazioni del podio e di imporsi con la sua lettura. Il declamato è perentorio non monocorde, anzi, il soprano, potendo contare su un mezzo d’indubbia importanza, gioca sulle dinamiche, alleggerisce e rinforza il suono di volta in volta, cogliendo accenti particolarmente felici quando sibila con ironica dolcezza “Ebbene, lo compi, e parti” o “Nel suo cor ti vo’ ferire”. L’interprete, non a caso rivelatasi due anni fa con una sorprendente Medea di Cherubini, non delude, anzi, trasforma la sua voce in un interessantissimo veicolo espressivo: ne è un esempio la filatura di “Son io” nel finale secondo, in cui la nota, per quanto ben sostenuta anche con un accenno di messa di voce, non ha la sublime morbidezza, la dolcezza della perfetta mezzavoce. È, però, un suono che viene dall’anima, che non può esser morbido e dolce perché sembra sfuggire dalle labbra della sacerdotessa contro la sua stessa volontà, una confessione spontanea ma che sorprende per prima la donna, che resta attonita, stupita di se stessa, poi consapevole, pronta ad accettare con coraggio l’inevitabile conseguenza dei suoi atti, della fierezza e della forza di quel cuore tradito e inesorabilmente ancora amato. Tutto il finale assume così una luce, una profondità diversa, un senso di fatalità e di romantica ribellione insieme. Lo stesso finale e “Teneri figli”, soprattutto, confermano la capacità di legare ed esprimere un canto intimo e raccolto, mentre il duetto con Pollione le possibilità di un certo mordente nel belcanto più energico. Questo perché l’impostazione di base è corretta, e per quanto non trascendentale (una certa preoccupazione traspare in “Casta diva” e “Ah! bello a me ritorna”, qualche suono appare occasionalmente meno timbrato e puntuale), le permette di affrontare con sicurezza l’oneroso impegno cogliendo soluzioni felici, un’ottima costruzione del personaggio, senza cedimenti, ma con una continuità di livello assai rassicurante. I momenti migliori risulteranno poi quelli dei duetti con Adalgisa, per la perfetta sintonia con la bacchetta di Mariotti e la sua partner Veronica Simeoni, con la quale realizza tutti i colori, tutte le dinamiche suggerite dal podio esaltando lo splendore della concertazione. Oltre all’estatica bellezza dei cantabili si vorrà almeno citare il secondo verso di “Sì, fino all’ore estreme”, in cui in luogo del tradizionale rallentando abbiamo, sempre a tempo, un piano che sortisce un effetto coloristico ancor più efficace senza il rischio di leziosità e appesantimento che la variazione consueta comporta. Giocando sulla dinamica più che con l’agogica Mariotti dimostra in questo punto quali siano le immense possibilità del dizionario espressivo del belcanto, perfettamente assecondato dalle voci, il cui affiatamento si traduce anche in una resa scenica che ci fa rivalutare, e di molto, anche la regia di Fassini ora ripresa da Borrelli. Rispetto alla stereotipa gestualità sfoggiata in prima compagnia da Theodossiou e Aldrich, Billeri e Simeoni infondono molta più verità alla recitazione, e nel caso del giovane mezzosoprano potremmo ravvisare in potenza una nuova interprete di riferimento della vergine d’Irminsul. Il pensiero corre a ciò che Sonia Ganassi ha saputo fare del personaggio, e non paia riduttivo per l’artista emiliana se si ascrive ai suoi massimi risultati artistici l’aver dato vita e saputo valorizzare massimamente una figura fondamentale dell’opera il cui protagonismo rischia però di venir schiacciato – anche in assenza di un pezzo solistico di ampio respiro – da quello di Norma e Pollione. La Simeoni s’impone: in primo luogo perché sa cantare e i suoi mezzi son saldi, duttili, freschi e pieni, ben calibrati in rapporto alle esigenze della scrittura belliniana e i pesi vocali dei colleghi in scena. Ed è sempre presente al personaggio, vivida e partecipe, davvero coinvolgente nel trapassare dai fervidi slanci d’amore turbati da rimorsi e incertezze alla presa di coscienza del tradimento di Pollione e alla scelta d’amicizia e solidarietà femminile. Un talento autentico, indubbiamente. Speriamo di vederlo fiorire pienamente negli anni a venire.
Un’improvvisa indisposizione ci ha impedito di ascoltare il Pollione alternativo, Aquiles Machado, sostituito da Marco Berti, che ha confermato l’impressione della recita con la prima compagnia, sebbene il fraseggio sia parso dimostrare, se non una personalità elettrizzante, almeno la ricerca di una maggior varietà, forse stimolato da due partner femminili decisamente più coinvolgenti.
Molto bene l’Oroveso di Enrico Iori, voce salda e autorevole, anche lui non avrebbe sfigurato in un primo cast, concetto ormai sempre più spesso svuotato di significato, almeno dal punto di vista qualitativo. Il successo è meritatamente calorosissimo.
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