“Non era da meno l’Adalgisa di Veronica Simeoni. Si è particolarmente distinta per le qualità sceniche, risultando a mio parere la più convincente della produzione dal punto di vista attoriale. Il mezzosoprano romano è inoltre dotato di uno strumento vocale più che generoso, nonché di spiccata sensibilità artistica che le ha consentito di interagire splendidamente con i colleghi, permettendoci di ascoltare duetti memorabili: precisissimo il “Mira, o Norma” con la protagonista e notevole il “Va’, crudele, al dio spietato” tra la sua Adalgisa e Pollione.”
di Camilla Simoncini
Si è fatta attendere a lungo, ma dopo dieci anni torna finalmente al Regio di Torino “Norma” di Vincenzo Bellini, con un allestimento piuttosto datato che non mostra tuttavia i segni del tempo, risultando ancora godibile e visivamente assai gradevole. L’impianto scenico – ideato da William Orlandi – è composto principalmente da enormi pannelli simili a lastroni rocciosi che scorrono sul palco dando forma alle terre galliche con un taglio tradizionalista e allo stesso tempo evocativo nella sua stilizzazione e bidimensionalità. Il palco si riempie di volta in volta di altri elementi minori che fanno man mano il loro ingresso: l’imponente pietra druidica che funge da altare nella foresta sacra, vari arredi che vanno a ricreare l’abitazione di Norma, il “bronzo del Dio” all’interno del Tempio d’Irminsul e via dicendo. Infine, a simboleggiare la sete di distruzione dei Galli nei confronti di Roma, compaiono di tanto in tanto sagome di rovine classiche, certo significative ma forse anche evitabili perché realizzate in modo eccessivamente posticcio. Il tutto si staglia su fondali assai realistici sui quali sfilano ora uno scorcio naturalistico, ora l’immancabile luna piena in tutta la sua luminosità, ora un tramonto infuocato. Per quanto riguarda la regia – firmata da Alberto Fassini e ripresa oggi da Vittorio Borrelli – non si può dire che miri ad approfondire la struttura psicologica dei personaggi o che tantomeno punti a comunicare al pubblico significati ulteriori, ma si proponga piuttosto di seguire fedelmente le indicazioni contenute nel libretto dell’opera.
Questa filologica maniacalità, tuttavia, non è certo una nota di demerito, anzi. Pensiamo solo a come è stata impeccabilmente realizzata la scena del rito nel primo atto: Norma che brandisce il falcetto e con gesto elegante miete il vischio, prontamente raccolto con ampi lenzuoli da bionde sacerdotesse in lunghi abiti bianchi, circondate da druidi, guerrieri, bardi, tutti disposti secondo ordinate simmetrie.Il tutto è stato reso con uno sbalorditivo equilibrio compositivo che ha permesso di creare in teatro un’armonia e una solennità tali che – mi viene da pensare – gli stessi Bellini e Romani non avrebbero sperato di meglio. Ritengo che buona parte del fascino di quest’opera sia proprio dovuto a questa mistica sacralità che aleggia di continuo. Ma la vera bellezza di questo capolavoro belliniano sta nella profonda complessità del personaggio principale. Norma è una figura caratterizzata da sfumature che la rendono affascinante e contraddittoria al tempo stesso. In essa ritroviamo una sacerdotessa empia in cui si mescolano la rabbia della donna tradita in eterna lotta con l’animo della madre affettuosa: quasi un connubio tra Giulia, vestale spontiniana, e Medea di Cherubini (dalle quali derivano la matrice neoclassica ancora presente in quest’opera anche se miscelata con un gusto romantico decisamente prevalente).
La difficoltà del ruolo sta nel fatto che tali sfumature caratteriali si riflettono anche nella partitura, rivivendo in analoghe sfumature musicali che si esprimono sul piano della dinamica interpretativa e vocale. Non è facile trovare una cantante che sia in grado di gestire tutto ciò con sensibilità e intelligenza artistica, ed è forse per questo che un’opera come Norma risulta essere al giorno d’oggi più famosa che rappresentata: è impresa ardua trovare un’artista all’altezza…ma non impossibile. Ne è la prova la splendida performance torinese diMaria Billeri, protagonista di un secondo cast davvero eccellente, nessun interprete escluso. La cantante ha brillato sin dal celeberrimo “Casta Diva”, sfoggiando pianissimi da brivido e un canto estremamente pulito, regalandoci un’invocazione alla luna di rara dolcezza (tributato da lunghi applausi a scena aperta) e dimostrando subito dopo di sapersela cavare anche con le agilità nella cabaletta “Ah! Bello, a me ritorna”. Il soprano pisano – che scoprii nel 2010 nel ruolo di Medea e di cui già allora ammirai il talento – ha confermato ancora una volta d’essere un’interprete eccellente. Con la sua camaleontica espressività è riuscita a rimanere credibile e convincente dall’inizio alla fine dell’opera, oscillando dalle più feroci espressioni di rabbia come nel finale d’atto “Vanne, sì, mi lascia, indegno” ai momenti più ricchi di pathos e lirismo, tra cui un “Deh, non volerli vittime” da “pelle d’oca”. Non era da meno l’Adalgisa di Veronica Simeoni. Si è particolarmente distinta per le qualità sceniche, risultando a mio parere la più convincente della produzione dal punto di vista attoriale. Il mezzosoprano romano è inoltre dotato di uno strumento vocale più che generoso, nonché di spiccata sensibilità artistica che le ha consentito di interagire splendidamente con i colleghi, permettendoci di ascoltare duetti memorabili: precisissimo il “Mira, o Norma” con la protagonista e notevole il “Va’, crudele, al dio spietato” tra la sua Adalgisa e Pollione. Quest’ultimo, il “crudel romano”, è stato interpretato dal tenore venezuelano Aquiles Machado. Una voce squillante e di bel colore la sua, a mio parere perfetta per il ruolo. Nonostante qualche acuto sforzato, Machado ha tenuto una linea di canto impeccabile per tutta la durata dell’opera, toccando punte di eccellenza nell’aria “Meco all’altar di Venere” e soprattutto nel duetto finale con Norma (“In mia man alfin tu sei”) risultando incredibilmente espressivo, commosso e commovente. Ottimo infine anche l’Oroveso di Enrico Iori, dotato di voce pastosa e ben timbrata, che ha impersonato un capo dei druidi degno di nota nonostante la parte piuttosto limitata. Parti di fianco più che convincenti – composte da Rachel Hauge nel ruolo di Clotilde e Gianluca Floris in quello di Flavio – ha ben completato questo cast così valido, affiatato e ben assortito che ha permesso una resa musicale così memorabile del capolavoro belliniano. Per questa è doveroso ringraziare non solo gli interpreti, ma anche – e forse soprattutto – la bacchetta d’oro del giovane Michele Mariotti: una direzione di gran classe la sua, fonte di emozioni immense già a partire dalla Sinfonia. Grande concertatore, attentissimo tanto agli artisti in buca quanto a quelli sul palco, il talentuoso direttore marchigiano ha guidato con assoluto buon gusto l’Orchestra del Teatro Regio, accompagnandoci quasi per mano lungo tutta la partitura senza mai risultare banale o noioso, scegliendo sempre i tempi giusti e giocando a regola d’arte con dinamiche e colori.
Il pubblico – tra i più rumorosi e indisciplinati di cui personalmente abbia mai fatto parte! – fortunatamente non si è ammutolito al calar del sipario, ma si è agitato ulteriormente tributando a tutti calorosissimi applausi e salutando con entusiasmo questa produzione indimenticabile.
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