Madama Butterfly | Puccini

G. Puccini, Madama Butterfly

Teatro Carlo Felice | 21 maggio,7-9 giugno

Genova | Teatro Carlo Felice

 

Personaggi e interpreti

Cio-Cio-San Hui He/Raffaella Angeletti

Suzuki Elena Cassian/Veronica Simeoni

Kate Pinkerton Sara Cappellini Maggiore/Elisabetta Valerio

F. B. Pinkerton Massimiliano Pisapia/Leonardo Caimi

Sharpless George Petean/Luca Grassi

Goro Mario Bolognesi/Enrico Salsi

Il Principe Yamadori Armando Gabba

Il Commissario Imperiale Armando Gabba

Lo zio Bonzo Seung Pil Choi

Yakusidé Roberto Conti

L’Ufficiale del registro Loris Purpura

La madre di Cio-Cio-San Marina Frandi/Simona Pasino

La zia Simona Marcello

La cugina Alla Gorobchenko

Direttore

Stefano Ranzani/Giacomo Sagripanti (7 e 9.6)

Regia

Ignacio Garcia

Scene e costumi

Beni Montresor

Luci

Luciano Novelli

Allestimento

Teatro Carlo Felice

Sovratitoli

Prescott Studio Firenze

Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice

Maestro del Coro

Marcovalerio Marletta

 

«Via alberelli fioriti, giardinetti di rocce, ponticelli rustici. Via soprattutto movimenti zuccherati e leziosi, atteggiamenti giapponesi. A New York ho sentito dire spesso da giapponesi che Cio-Cio-San è un’italiana pazza d’amore.» Così il regista, scenografo e costumista Beni Montresor presentava la sua Madama Butterfly ideata per il Teatro Carlo Felice nella Stagione 1995/96, e, da allora, divenuto uno degli allestimenti più ammirati e fortunati mai prodotti dell’ente lirico genovese. Una Butterfly non da cartolina, dunque, ma, al contrario, drammaticamente tesa come una commedia di Tennessee Williams e scenicamente stilizzata come uno spettacolo di Bob Wilson. Eliminati gli scontati esotismi fin de siècle, infatti, di orientale, nella Butterfly di Montresor, sopravvive solo un simbolo: il bianco, che incornicia e avvolge tutta la messa in scena – il colore, per gli orientali, del lutto, della morte e dei fantasmi. Perché per Montresor Madama Butterfly non è una cineseria musicale da salotto, ma «un grande rito funebre svolto sull’altare dell’amore e officiato da una donna assistita amorosamente da un’altra donna, l’ancella Suzuki.» Una lettura che non solo ha il merito di cancellare dall’opera quella patina kitsch che l’accompagna più o meno da sempre, ma, anche, quello di mettere in relazione Butterfly con l’immaginario più profondo di Puccini, ossessionato, come si sa, dal binomio classico, inscindibile, di Amore e Morte. E, in particolare, dall’amore e dalla morte – anche molto violenta – della donna: basta pensare a Tosca, a Manon, alla Liù di Turandot, alla Mimì di Bohème.

Non c’è da stupirsi, perciò, dell’impressione che fece su Puccini, nell’estate del 1900, la rappresentazione, a cui il compositore assistette a Londra, del dramma Madama Butterfly che David Belasco aveva tratto da una novella di John Luther Long (mutandone però in tragedia l’happy end convenzionale). Puccini, che non parlava inglese, non capì una parola di quanto i personaggi si dicevano sulla scena, ma uscì da teatro ugualmente scosso dalla storia della piccola geisha giapponese che si uccide «con onore» (vale a dire facendo harakiri come i suoi avi), dopo essersi consumata per tre anni nell’attesa che ritornasse da lei lo sbruffone tenente della marina americana Pinkerton. Che le ha dato un figlio, sì, ma, avendola sposata «secondo la legge giapponese», non riconosciuta dagli Sati Uniti, ha potuto abbandonarla per risposarsi, e questa volta sul serio, con una propria connazionale. A scrivere il libretto furono chiamati i fidi Illica e Giacosa, e l’opera andò in scena per la prima volta a Milano, al Teatro alla Scala, il 17 febbraio 1904.

Puccini, nel comporre la musica, fece ricorso a tutta la sua abilità strumentale, melodica, armonica, nonché alla sua capacità stregonesca di trasformare in “pucciniano” tutto ciò su cui metteva le mani: nel caso di Butterfly, le scale pentatoniche giapponesi, l’inno della marina americana, le armonie modali richiamanti un mondo musicale lontano, sfumato e arcaico, gli accenni al Tristano. Eppure, nonostante l’emotività della vicenda, l’immediatezza e il fascino timbrico e coloristico della partitura, la prima milanese fu un fiasco – uno dei più memorabili della storia dell’opera insieme a quello della Traviata di Verdi. Ma aveva ragione Giovanni Pascoli quando, in una cartolina inviata a Puccini dopo la disastrosa recita scaligera, profetizzò che la «farfallina volerà». Ritoccata qua e là, ma, soprattutto, divisa in tre atti invece che in due (il secondo risultava troppo lungo sia per la protagonista, sempre in scena dall’inizio alla fine, che per il pubblico), la «farfallina» spiccò finalmente il volo auspicato da Pascoli il 28 maggio 1904 al Teatro di Brescia, non smettendo mai più di sbattere le ali fino ai giorni nostri.